martedì 21 agosto 2012

Memoria di San Pio X. Il Magistero del Papa: una guida sicura nell’apprendere le verità della fede per il linguaggio semplice, chiaro e preciso

Il 21 agosto è per la Chiesa universale il giorno della memoria di San Pio X (foto). Papa Sarto fu eletto al soglio pontificio nel 1903 e si spense il 20 agosto 1914. Il suo Pontificato, ha ricordato due anni fa Benedetto XVI dedicandogli un’Udienza generale, è stato esemplare in molti circostanze della sua azione pastorale. Un piano inclinato tra i vertici della sapienza del cielo e la gente meno istruita, che quella sapienza voleva comprendere ma aveva bisogno di essere aiutata. In un decennio alla guida della Chiesa universale, Pio X varò riforme destinate a lasciare, ha affermato Benedetto XVI, “un segno indelebile”. Dai sacerdoti al Popolo di Dio, nulla sfuggì alla sua sensibilità pastorale, che lo spinse a scrivere il celebre Catechismo.
“Da autentico pastore aveva compreso che la situazione dell’epoca, anche per il fenomeno dell’emigrazione, rendeva necessario un catechismo a cui ogni fedele potesse riferirsi indipendentemente dal luogo e dalle circostanze di vita...Questo Catechismo chiamato ‘di Pio X’ è stato per molti una guida sicura nell’apprendere le verità della fede per il linguaggio semplice, chiaro e preciso e per l’efficacia espositiva”.
Del resto, il motto che campeggiava sul suo stemma pontificio non faceva mistero dei suoi intendimenti: Instaurare omnia in Christo, “Rinnovare tutte le cose in Cristo”. Fu così anche per la liturgia, o la musica sacra, riviste anch’esse allo scopo di condurre i fedeli a una più profonda vita di preghiera e a una più piena partecipazione ai Sacramenti. Da qui, la decisione di far accostare alla Prima Comunione i bambini verso i sette anni di età, una rivoluzione di mentalità non da poco per l’epoca.
“Cari fratelli e sorelle, San Pio X insegna a noi tutti che alla base della nostra azione apostolica, nei vari campi in cui operiamo, ci deve essere sempre un’intima unione personale con Cristo, da coltivare e accrescere giorno dopo giorno. Questo è il nucleo di tutto il suo insegnamento e di tutto il suo impegno pastorale”.

Radio Vaticana

Udienza generale, 18 agosto 2010, San Pio X

Anno della fede. Riscoperta, riflessione, impegno sono le tre principali direttrici lungo le quali la Chiesa in Brasile intende muoversi

Non è solo il santuario più famoso del Brasile. La basilica di Nostra Signora di Aparecida è metafora del percorso di rinnovamento seguito dalla Chiesa latinoamericana dopo il Concilio. Lì, nel maggio di cinque anni, si svolse la quinta Conferenza generale dell’Episcopato del continente (Celam), e i vescovi rifletterono insieme a Benedetto XVI sull’importanza di una nuova evangelizzazione. Missione a cui ogni fedele è chiamato per trasmettere l’amore di Cristo attraverso una testimonianza coerente. Non è un caso, dunque, che la Chiesa brasiliana abbia scelto di cominciare le celebrazioni per l’Anno della fede proprio ad Aparecida. Il 12 ottobre, 520° anniversario del primo incontro tra Europa e America, data che quest’anno cade il giorno dopo l’inizio dell’Anno della fede, la Basilica ospiterà una cerimonia cui sono invitati i pastori del Paese più grande del continente, che conta ben 275 diocesi. "Sarà un ritorno ai grandi temi affrontati cinque anni fa nella Conferenza – spiega ad Avvenire padre Antonio Luiz Ferreira Catelan, responsabile nella Conferenza Episcopale brasiliana per la dottrina della fede – per rafforzare i fondamenti della religione cristiana e poterla testimoniare nella nostra vita, perché la fede è una riscoperta continua". Riscoperta, riflessione, impegno sono le tre principali direttrici lungo le quali la Chiesa brasiliana intende muoversi nell’Anno della fede. A ottobre, uscirà l’edizione ufficiale dei documenti del Concilio Vaticano II curata dalla Conferenza Episcopale brasiliana, che pubblicherà una miscellanea dei discorsi di Benedetto XVI sulla fede, oltre all’edizione ufficiale del Catechismo e un compendio del Catechismo. «È il fondamento del nostro credo, dobbiamo approfondirlo di continuo – continua padre Catelan –. Per questo a settembre si svolgerà un congresso teologico a Curitiba". Non è solo uno sforzo teorico. La conoscenza della fede implica a sua volta un rinnovato slancio missionario, dai forti connotati sociali. Nonostante il recente "milagro economico" – è la sesta economia del mondo –, il Brasile rimane una nazione sfregiata da marcate diseguaglianze: quasi un terzo degli abitanti è povero e oltre la metà vive in condizioni abitative precarie. "La Chiesa brasiliana ha una grande tradizione di impegno e solidarietà che dobbiamo proseguire", spiega padre Antonio. È una sfida importante in un momento cruciale: insieme al boom, nel Paese avanza anche la secolarizzazione. L’offerta religiosa si moltiplica. Accanto alla forte e radicata presenza della Chiesa Cattolica, dilagano le sétte protestanti, in particolare di matrice evangelico-pentacostale. Se ne contano ormai migliaia di denominazioni, per un totale di oltre 42 milioni di fedeli, il 26% della popolazione, in base alla ricerca realizzata nel 2010 dall’Istituto brasiliano di geografia e statistica. I numeri evidenziano, inoltre, un calo dei cattolici, che restano comunque oltre 123 milioni, pari al 64% dei brasiliani, in un Paese che è anche atteso da un quadriennio sotto i riflettori del mondo: GMG 2013, Mondiali di calcio 2014, Olimpiadi 2016, tutt’e tre a Rio. Al di là delle cifre, "si nota, però, una religiosità più partecipata: chi si professa cattolico non lo fa più per tradizione ma per convinzione profonda", afferma mons. Giuliano Frigeni, vescovo di Parintins, al confine tra gli Stati di Amazonas e Parà, nel cuore della selva. Bergamasco, missionario del Pime, da 33 anni in Brasile, "dom Giuliano", come si fa chiamare, è un vescovo che vive ai margini del Brasile "rampante": nel Nord amazzonico il governo latita mentre i latifondisti impongono con la forza il loro potere a contadini e indigeni. Questi ultimi rappresentano l’8% della popolazione della diocesi di Parintins. "Per testimoniare il Vangelo in questi luoghi si deve fare come Gesù: vivere in mezzo alla gente – dice il vescovo. – La fede non è solo un apparato dogmatico, qui è soprattutto amore paterno e materno, accoglienza incondizionata di tutti, forti e fragili. Evangelizzare vuol dire trasmettere questo messaggio, ai meticci come ai nativi. Senza alcuna arroganza o forzatura, o pretesa di colonialismo culturale e religioso, ma con affetto infinito. Lo stesso affetto di Gesù, cui dobbiamo sforzarci di assomigliare ancor di più in quest’Anno della fede".

Lucia Capuzzi, Avvenire

Corte distrettuale federale di Portland assolve il Vaticano dalle responsabilità per un religioso colpevole di pedofilia: non è un dipendente

Michael Mosman, giudice della Corte distrettuale federale di Portland (Oregon), ha stabilito lunedì 20 agosto che la Santa Sede "non può essere considerata come il datore di lavoro" dei sacerdoti e dunque responsabile in sede civile per gli abusi sessuali commessi dai chierici. Ogni caso va dunque valutato singolarmente e il fatto di essere prete non significa di per sé l’essere considerato alla stregua del dipendente di un’impresa. E nel caso specifico ha accertato la mancanza totale di qualsiasi "rapporto di lavoro" tra la Santa Sede e il sacerdote protagonista degli abusi. La decisione chiude il procedimento con la motivazione di "mancanza di giurisdizione". L’avvocato Jeff Anderson, che rappresenta molte vittime di abusi sessuali negli States, ha comunque annunciato ricorso in appello. Un appello che il legale della Santa Sede, Jeffrey Lena, definisce "molto difficile da vincere". Il caso è stato portato in tribunale dieci anni fa, nel 2002, con l’accusa alla Santa Sede di essere responsabile per il comportamento di padre Andrew Ronan, un sacerdote appartenente all’ordine del Servi di Maria (OSM), che nel 1965 aveva abusato di un ragazzo di 17 anni. Dai documenti è emerso che padre Ronan, nel corso di 15 anni, aveva abusato di altri ragazzi, a Chicago e a Benburg, in Irlanda. Ma questi episodi erano stati mantenuti segreti dall’ordine religioso e la Santa Sede era stata informata di tutto ciò soltanto nel momento in cui Ronan chiese di essere dimesso dallo stato clericale. I superiori del religioso avevano deciso il trasferimento, prima da Benburg a Chicago, quindi a Portland, senza avvertire né il responsabile locale dell’ordine né il vescovo di Portland di quanto era accaduto in precedenza. La Corte distrettuale federale ha cercato di stabilire se la Santa Sede abbia dato lavoro a padre Ronan, se abbia avuto un ruolo nel decidere il trasferimento da un posto all’altro, se era a conoscenza del fatto che il prete abusava dei ragazzi. E infine se padre Ronan fosse un impiegato della Santa Sede. Se il giudice avesse riscontrato come vere queste accuse, il caso sarebbe andato a giudizio e si sarebbe aperto il processo. In caso contrario sarebbe stato accantonato e non si sarebbe potuto procedere: questa è stata appunto la decisione. La Corte ha infatti stabilito che il Vaticano non è stato coinvolto nella vicenda fino al 1966, quando il vescovo di Portland, dopo aver attestato la fondatezza dell’accusa contro Ronan, chiese alla Congregazione vaticana che si occupa dei religiosi di dimetterlo dallo stato clericale. La dimissione avvenne immediatamente, in tutto passarono cinque settimane. "Questo caso è importante – spiega a Vatican Insider l’avvocato Lena – perché ancora una volta dimostra la distinzione tra certe accuse e la realtà delle cose che emerge dai documenti. Dopo aver esaminato centinaia di pagine, il giudice non ha trovato alcun fondamento alla tesi dell’accusa che voleva considerare la Santa Sede 'datore di lavoro' di Ronan o comunque coinvolta nei fatti accaduti. Di conseguenza, ha stabilito che non c’erano le basi per proseguire con il processo. La Corte ha rigettato la teoria secondo la quale un prete va considerato come un 'impiegato' della Santa Sede solo per il fatto di essere sacerdote soggetto alle norme generali del Codice di diritto canonico. Sono state esaminate per la prima volta nei minimi particolari le basi dell’accusa secondo la quale la Santa Sede sarebbe coinvolta nei trasferimenti dei preti responsabili di abusi, e questi preti sarebbero da considerare 'impiegati' della stessa Santa Sede. E ha determinato che entrambe queste accuse sono false". Un’ultima annotazione riguarda le date: perché nel 1966 il Vaticano prese la decisione di ridurre allo stato laicale il sacerdote religioso in tempi così rapidi, con procedure simili a quelle che il card. Joseph Ratzinger prima, e poi con ancora maggior vigore Benedetto XVI poi, hanno stabilito dopo l’esplodere dello scandalo dei preti pedofili negli Usa, in Irlanda e in Germania? E perché negli anni successivi, fino al 2001, non si è proceduto con la stessa celerità? Bisogna considerare che fino alla fine del Pontificato di Paolo VI le dispense per la dimissione dallo stato clericale venivano concesse con molta più facilità ai sacerdoti che chiedevano di poter lasciare l’abito per potersi sposare, ma anche per i preti coinvolti nei casi di abuso. È con il Pontificato di Papa Wojtyla che, di fronte alla crisi delle vocazioni, viene tirato il freno: le riduzioni dei un preti allo stato laicale diventano più rare e sono l’esito di un attento processo. Le norme e le procedure meno permissive nel concedere le dimissioni hanno finito per determinare una minore tempestività nel decidere quella che viene considerata la pena più grave anche per i casi di preti responsabili di abusi sui minori. Una tendenza che Papa Ratzinger ha voluto personalmente invertire, introducendo quasi una legislazione "di emergenza" per far fronte a questi terribili casi.

Andrea Tornielli, Vatican Insider

Anno della fede. A Benedetto tocca oggi il compito che fu di Paolo VI: un Papa che ricordi che la Chiesa è una nella ricchezza delle diversità

Se settembre sarà il mese del Libano e delle Chiese del Medio Oriente, con il viaggio del Papa e la consegna del documento che riassume i risultati del Sinodo del 2010, ottobre sarà dedicato al Concilio Vaticano II. Benedetto XVI ha voluto che la prossima Assemblea sinodale fosse dedicata alla Nuova evangelizzazione e che le celebrazioni per i 50 anno dell’apertura della grande Assise conciliare siano coronate dall’apertura dell’Anno della fede. Si riuniscono così due eventi voluti da due grandi Pontefici. Il Concilio, indetto in modo inatteso da Giovanni XXIII e l’Anno della fede che Paolo VI volle negli anni post conciliari per contrastare una deriva di cui ancora oggi si sentono gli effetti. L’11 ottobre allora non sarà solo un momento celebrativo, con i giovani in Piazza San Pietro con le fiaccole per ricreare l’atmosfera del “discorso alla luna” di Papa Giovanni. L’11 ottobre sarà una occasione per rileggere cosa ha significato l’apertura del Concilio. Uno shock per cardinali, vescovi e fedeli, una profezia per la Chiesa che vedeva e anticipava l’atmosfera del ’68. Tutto nato solo dal cuore di un Papa, Giovanni XXIII, che per alcuni non aveva niente da dire e che doveva essere di transizione. A rileggere oggi quelle pagine di storia e cronaca sembra di intravedere la miopia di un mondo ecclesiale che immaginava di non dover mai guardare alla contemporaneità. Eppure il problema era reale. C’era un’enorme disparità tra le finalità indicate dal Papa e gli strumenti a disposizione della Chiesa in quei primi anni ’60. Scrive pochi anni dopo Benny Lai: “La situazione della Chiesa era meno tranquilla di quanto apparisse in superficie. All’interno degli ambienti ecclesiastici s’erano sviluppate, nell’area culturale franco-tedesca, tendenze innovatrici tanto in campo teologico che biblico”. Un fermento che il Papa voleva imbrigliare? Papa Giovanni, dopo l’annuncio del 25 gennaio del 1959, dedicò ogni pomeriggio alla preparazione della Assise fino a quell’11 ottobre del 1962, quando ancora il Papa pensava di chiudere i lavori per Natale. Iniziò così anche una certa narrativa che vedeva in Papa Roncalli il grande riformatore, un innovatore. Nel tempo si vide che in effetti il Papa era abbastanza conservatore e toccò proprio al suo successore, Paolo VI, veleggiare in un post Concilio tanto burrascoso da richiedere una “messa a punto”. Evidentemente non fu sufficiente. Ma il Papa che conosceva la Curia sapeva anche che fuori dalle Mura Leonine il fermento era grande e, a volte, fin troppo scomposto. “Noi - disse nella omelia della Messa che concludeva il 28 giugno del 1968 l’Anno della fede - siamo coscienti dell’inquietudine, che agita alcuni ambienti moderni in relazione alla fede. Essi non si sottraggono all’influsso di un mondo in profonda trasformazione, nel quale un così gran numero di certezze sono messe in contestazione o in discussione. Vediamo anche dei cattolici che si lasciano prendere da una specie di passione per i cambiamenti e le novità. Senza dubbio la Chiesa ha costantemente il dovere di proseguire nello sforzo di approfondire e presentare, in modo sempre più confacente alle generazioni che si succedono, gli imperscrutabili misteri di Dio, fecondi per tutti di frutti di salvezza. Ma al tempo stesso, pur nell’adempimento dell’indispensabile dovere di indagine, è necessario avere la massima cura di non intaccare gli insegnamenti della dottrina cristiana. Perché ciò vorrebbe dire - come purtroppo oggi spesso avviene - un generale turbamento e perplessità in molte anime fedeli”. Il Papa “progressista”, come anche in questo caso si voleva dire, era perfettamente consapevole che nei momenti di maggior slancio riformatore bisogna tenere i piedi per terra. Lo si capì a pieno più tardi, quando l’ala più conservatrice del Concilio prese la strada di quello che oggi è ormai quasi uno scisma. Marcel Lefebvre reagì più alle interpretazioni che al Concilio stesso, ma poi i suoi seguaci hanno intrapreso una strada totalmente divergente da quella seguita da Giovanni Paolo II prima e da Benedetto XVI oggi. Ed è proprio a Benedetto che tocca oggi il compito che fu di Paolo VI. Dopo la profezia la riflessione, dopo un Papa che porta il Concilio alle Chiese locali, un Papa che ricordi che la Chiesa è una nella ricchezza delle diversità. Dopo l’entusiasmo dell’adolescenza del Vaticano II, la maturità di una giovanile e meditata energia. Perché la Chiesa è giovane, e la Nuova evangelizzazione profetizzata da Giovanni Paolo II deve diventare concreta quotidianità in un mondo lacerato tra la tentazione del vecchio e indifferenza del nuovissimo.

Angela Ambrogetti, Korazym.org

Padre 'B' aveva ricevuto da Paolo Gabriele copia dei documenti trafugati ma non ha avvisato i superiori per l’inviolabilità del segreto confessionale

Perché colui che nella sentenza di rinvio a giudizio di Paolo Gabriele (nella foto con Benedetto XVI), per furto aggravato di documenti sottratti alla segreteria papale e finiti nel libro di Gianluigi Nuzzi, viene definito "padre spirituale B", pur avendo ricevuto dal maggiordomo copia delle carte trafugate non ha fatto nulla per fermarlo? E che ruolo ha eventualmente avuto nell’orientare Gabriele in questa vicenda? Molti osservatori hanno sollevato dubbi e domande sull’argomento, a partire da quella sulla sua identità. Padre "B" non sarebbe il rettore della chiesa di Santo Spirito in Sassia, né è il prelato che per qualche tempo, in passato, era stato direttore spirituale di Gabriele, intervistato anonimamente da La Stampa il giorno dopo l’arresto del maggiordomo. A tirare in ballo per primo il suo confessore è lo stesso Gabriele, nel corso dell’ultimo colloquio con mons. Georg Gänswein, avvenuto il 23 maggio, quando il segretario particolare di Benedetto XVI aveva comunicato all’aiutante di camera la sospensione cautelativa dal servizio, poche ore prima che avvenissero la perquisizione e l’arresto. Gänswein ha testimoniato: "Ho allora chiamato davanti alle altre persone della Casa pontificia Paolo Gabriele e gli ho comunicato la sospensione ad cautelam… Lui ha allora detto che in questo modo era stato trovato il capro espiatorio della situazione. Molto freddamente mi ha poi detto che era tranquillo e sereno avendo a posto la coscienza avendo avuto un colloquio con il suo padre spirituale". Così ha spiegato la circostanza Gabriele nell’interrogatorio del 21 luglio: "D’altra parte questo mio atteggiamento di negazione delle responsabilità, seguiva anche le indicazioni del mio padre Spirituale che mi aveva detto di attendere le circostanze e salvo che fosse stato il Santo Padre a chiedermelo di persona di non affermare ancora questa mia responsabilità". Durante i primi interrogatori di fronte ai magistrati vaticani, Gabriele aveva anche raccontato: "Dei documenti consegnati a Nuzzi ho fatto fotocopie che ho consegnato al padre spirituale B". Il 28 giugno scorso, convocato dal giudice istruttore, padre "B" confermava di "aver ricevuto dal maggiordomo, tra il febbraio ed il marzo 2012, una serie di documenti conservati in una scatola con lo stemma pontificio, di cui non aveva conosciuto il contenuto". Paolo Gabriele "non ebbe a porgli alcuna condizione, ma si limitò a dirgli che 'si trattava di documenti molto importanti che riguardavano la Santa Sede'". I documenti erano contenuti "in una scatola con stemma pontificio larga come un foglio di A4 ed alta circa sei o sette centimetri". Padre "B" a questo proposito ha testimoniato di aver bruciato le carte compromettenti qualche giorno dopo la consegna, con questa motivazione: "Ho distrutto i documenti per una duplice ragione in quanto ne conoscevo l’importanza e in quanto qualche mese prima avevamo subito un furto… Inoltre sapevo che queste documentazioni in fotocopia erano frutto di una attività non legittima e non 'onesta' e temevo che se ne potesse fare un uso altrettanto non legittimo e non 'onesto'". Dalla requisitoria e dalla sentenza non emerge alcuna considerazione negativa riguardante padre "B", che è rimasto un semplice testimone. Il giudice istruttore Piero Antonio Bonnet si è limitato a scrivere: "Si può peraltro osservare che tutte le ragioni addotte per la distruzione dei documenti erano già presenti al momento del loro ricevimento". Dunque il confessore avrebbe potuto distruggere immediatamente i documenti. Null’altro però viene rilevato circa il comportamento di padre "B", neanche riguardo all’affermazione fatta da Gabriele a Gänswein sul consiglio ricevuto, quello di negare ogni responsabilità nei "vatileaks" a meno che l’interlocutore non fosse il Papa in persona. Nulla è detto in merito alla data di consegna dei documenti, avvenuta dopo che Gianluigi Nuzzi e Il Fatto Quotidiano avevano iniziato a divulgare le carte passate per la segreteria papale, e dunque doveva essere evidente agli occhi di padre "B" il ruolo avuto dall’aiutante di camera. La spiegazione che viene data in Vaticano di fronte a queste aree "grigie" è legata a uno dei sigilli considerati inviolabili, quello del segreto confessionale, che attiene soltanto a quanto è oggetto della confessione sacramentale. Esiste però anche un altro segreto legato alla direzione spirituale e più in generale allo svolgimento del ministero del sacerdote. Ne parla anche il Concordato tra la Santa Sede e l’Italia, specificando che "gli ecclesiastici non sono tenuti a dare a magistrati o ad altra autorità informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragione del loro ministero". Ciò non toglie, ovviamente, che al di là del ruolo del padre spirituale, vi possa essere ancora molto da scoprire circa i condizionamenti ambientali che hanno portato l’aiutante di camera a fare ciò che fatto. Dalla sentenza del giudice Bonnet si evince innanzitutto che almeno tre testimoni (indicati con lettere dell’alfabeto) hanno parlato del movente: "L’attività criminosa dell’imputato – scrive il giudice – è maturata in un contesto di disagio e di critica consapevole nei riguardi di vicende, organismi e personalità della Chiesa e dello Stato della Città del Vaticano", e questo emerge dalle deposizioni di "A, H e M, rispettivamente doc. 85, 126 e 138 del fascicolo d’ufficio". Lo stesso Paolo Gabriele il 6 giugno ha dichiarato al magistrato: "Sono stato suggestionato da circostanze ambientali, in particolare dalla situazione di uno Stato nel quale c’erano delle condizioni che determinavano scandalo per la fede, che alimentavano una serie di misteri non risolti e che destavano diffusi malumori". Quali sono queste circostanze "ambientali"? Possono essere collegate al ruolo che Gabriele ha svolto nell’appartamento pontificio dove svolgeva anche compiti di segreteria? E quanto hanno pesato sulla vicenda le innegabili tensioni interne al Vaticano, da quelle nell’entourage tedesco del Pontefice a quelle più note riguardanti la "promozione" di mons. Carlo Maria Viganò negli Stati Uniti ad altre, meno note, delle quali il maggiordomo ha parlato negli interrogatori? Nella sentenza di rinvio a giudizio il giudice ha ritenuto Gabriele un "soggetto suggestionabile e, come tale, in grado di commettere anche azioni eterodirette". L’inchiesta che continua dovrà cercare di appurare se e come ciò sia avvenuto.

Andrea Tornielli, Vatican Insider