venerdì 2 novembre 2012

Tommaso Spinelli a 'La Vigna del Signore': il Sinodo una grande famiglia riunita per un'occasione importante. Non dobbiamo aver paura di esser cristiani, e primi tra tutti i sacerdoti non devono temere di esserlo autenticamente

Si chiama Tommaso Spinelli, ha 23 anni, e in qualità di 'uditore' è stato il più giovane partecipante alla XIII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi sul tema "La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana". "Dopo aver seguito per tre anni gruppi di adolescenti nel cammino post cresimale - racconta in un'intervista esclusiva a La Vigna del Signore - da quest’anno ho un incarico di ambito diocesano come catechista di giovani catecumeni con l’ufficio catechistico del Vicariato di Roma diretto da mons. Andrea Lonardo". "A dicembre diventerò dottore in lettere classiche con una tesi di paleografia latina su un codice inedito di Papa Sisto IV della Rovere", il Pontefice della Cappella Sistina. "La mia aspirazione di vita - confida Spinelli - è divenire un buon mix dell’audacia e corposità di Guareschi e della dotta astuzia di Chesterton. Amo la letteratura, l’arte e i libri di qualsiasi tipo, ma meglio se antichi e scritti a mano. Vorrei diventare docente di letteratura antica". "Faccio parte di quei cristiani che impegnandosi ogni giorno nella pastorale di strada non disprezzano la sera, chiusa la porta, di aprire la ‘liturgia horarum’ in latino e alzare al cielo qualche ‘Pater, Ave e Gloria’. E credo che sia questo mix di tradizione e modernità che ispira la mia vita pastorale, e non".
Com'è stata la tua esperienza al Sinodo dei vescovi? Cosa ti ha lasciato?
L’esperienza del Sinodo è stata molto diversa da come me la aspettavo. Quando si viene convocati la prima volta all’interno della Città del Vaticano in un ceto internazionale di vescovi e cardinali si ha più che altro un po’ di sana soggezione, mi aspettavo un ambiente molto “chiuso” in cui sarei rimasto per forza di cose ai margini. La sorpresa invece è stata proprio vedere sin dal primo giorno una grandissima cordialità. Lo spirito che c’era era quello di una grande famiglia riunita per un’occasione importante. I vescovi erano visibilmente contenti di stare tra fratelli, di scambiare idee, opinioni e, perché no, di scherzare. Questo clima di profonda simpatia ed unità ha fatto si che io potessi sentirmi loro fratello in tutto. Le mie parole sono sempre state ascoltate con grande attenzione, mai superficialmente. Ciò che porterò con me è l’immagine che vedevo ogni mattina alle nove in punto quando il Papa entrava e senza dire altro intonava “Deus in auditorium meum intende”, e tutti i vescovi da ogni parte del mondo si univano nella preghiera. Questo spirito di simpatia, di sguardo sereno ma deciso verso il mondo, di grande cordialità ha cambiato molto la mia percezione di Chiesa. Mi ha dato vigore come catechista e come cristiano. Il motivo principale per cui torno contento dal Sinodo è l’aver visto una Chiesa veramente bella a servizio dell’uomo. Condivido su questo aspetto un piccolo dettaglio che spero mi sarà perdonato: l’umiltà enorme del Santo Padre, che ogni volta che poteva, talvolta anche se stanco, arrivava in aula ad occupare la presidenza del Sinodo e si faceva fratello tra i fratelli, facendosi dare i fogli degli interventi e seguendo attentamente e, usando l’avverbio latino“studiose”, i discorsi.
In che modo sei stato scelto come Uditore dell'Assemblea sinodale? Quale è stata la tua prima reazione quando ti è stata comunicata la nomina?
Ovviamente a ventitré anni aprire una busta e trovare dentro una pergamena filigranata “Officia Sanctae Sedis” con la nomina del Papa fa un certo effetto. Il Sinodo mi era stato proposto come possibilità qualche mese prima. La Chiesa nella sua sapienza ed umiltà voleva che un giovane partecipasse ai lavori del Sinodo: questa credo sia una lezione da cui molti dovrebbero imparare, credo che oggi raramente le istituzioni siano interessate realmente a sentire ciò che ha da dire un ragazzo di 23 anni. Loro non soòo hanno avuto la voglia di invitarmi, ma mi hanno anche accolto con una sincera gioia. E mi permetto di dire che se quel clima di apertura, di gioia, di sguardo centrato sull’uomo e non sull’economia divenisse proprio anche della politica forse la crisi passerebbe assai prima. Ad ogni modo non sono stato scelto per avere qualche merito particolare, facevo da anni il catechista, avevo una buona conoscenza della lingua latina - che si è rivelata assai utile, devo dire! - e mi è stato fatto questo regalo di poter vedere la Chiesa nel suo vivere.
Il tuo è stato uno degli interventi più apprezzati dei tanti letti nell'Aula, perchè franco e diretto. Da cosa sono nate le tue parole? Come sono state accolte all'assise?
Il mio intervento, che per molti giorni ho pensato di non pronunciare proprio perché mi pareva forse troppo diretto, nasce da considerazioni che io da molto tempo avevo dentro. Prima di tutto nasce da un fatto letterario: sono un grande amante di Guareschi e sin da piccolo la mia pietra di paragone per confrontare un prete è don Camillo. Parrà ingenuo ma tutti noi viviamo di modelli, quello di prete per me è don Camillo. Guareschi aveva tracciato i contorni di un sacerdote solido nella sua fede, che non temeva il dialogo anche con i suoi avversari perché aveva ben chiara la propria identità, e la aveva chiara al punto di pensare che la fede fosse così vera che anche quelli che la negavano in fondo in fondo credessero in Dio. Questo era il segreto di don Camillo, tu puoi anche credere che Dio non ci sia, ma di fatto c’è...e a partire da questa certezza non c’erano veri nemici, non c’erano veri odi, c’erano solo compagni di viaggio con la testa un po’ più dura. In questo piccolo mondo guareschiano don Camillo era parroco di tutti, soprattutto di quei comunisti che formalmente avversavano la sua opera pastorale. Mi si dirà: ma quello era un film e di un’epoca diversa, oggi siamo in crisi. E’ vero, dobbiamo trovare linguaggi nuovi, ma come disse il Cristo a don Camillo che si lamentava per la secolarizzazione, “quando il fiume rompe gli argini bisogna fare come fa il contadino, salvare il seme”. Questo seme è la nostra innata fiducia verso il mondo creato da Dio, è la nostra serena sicurezza che ci deriva dalla promessa della vittoria fattaci da Gesù. Si le acque esonderanno, venti contrari si alzeranno, ma “Non prevalebunt!”. Con questo sguardo guardo alla nuova evangelizzazione. Siamo in un periodo secolarizzato, così come pagana e secolarizzata era la società in cui San Paolo si mise in cammino per portare la fede. Eravamo dodici e ce l’abbiamo fatta, ho buoni motivi per supporre che Dio non ci toglierà il suo aiuto neanche oggi! Il mio intervento voleva solo tradurre in maniera più pragmatica molte istanze uscite dal Sinodo. Di fondo c’è l’idea che non dobbiamo aver paura di esser cristiani, e primi tra tutti i sacerdoti non devono temere di esserlo autenticamente, non devono sentirsi in imbarazzo nel dire che il senso della vita è il paradiso, che ci sono realtà più importanti di quelle terrene. Non devono cioè aver paura di dire cose che al mondo non piacciono, perché sembrano non piacergli ma in realtà sono le uniche cose che toccano veramente la fame d’infinito che l’uomo ha dentro. Sono certo che se troviamo il coraggio di riannunciare la fede la fede si diffonderà in questo mondo assai rapidamente. Il problema è come fare ciò. Ebbene a don Camillo bastava sapere un po’ di latino e di grammatica, qualche nozione di organo per esser tenuto in stima anche dai compagni di Peppone. Oggi purtroppo o per fortuna non basta più, e mentre il mondo affina strumenti culturali sempre più rilevanti, mentre l’istruzione media cresce e porta a porsi domande sempre più complicate ed il demonio raffina sempre più l’astuzia di quelle stesse domande che per primi illusero Adamo ed Eva (altro tema, la Genesi, di cui noi ci vergogniamo di parlare perché non sappiamo più spiegarne il senso vero e profondo che da luce al nostro mistero antropologico), noi abbiamo perso forse anche quel po’ di latino e di organo che avevamo. Mi spiego, per non creare malintesi: la formazione universitaria dei sacerdoti è progredita, ma spesso è slegata dalla realtà e dalla pastorale. Manca il ponte per legare quelle nozioni ad un loro pratico impiego e così in poco tempo vanno perse o peggio dimenticate. Tornare ad una cultura più solida e a tutto tondo che si preoccupi dell’uomo, che sia cultura umanistica in senso letterale, che sappia permeare la pastorale, l’omiletica, l’’ars celebrandi’, favorirebbe un incontro più maturo con l’uomo del nostro tempo che orai ci considera come coloro che raccontano favolette irragionevoli a cui non credono manco più loro. E di questo la colpa temo sia nostra, la fede non ha perso la sua attrattiva, Cristo affascina e il mondo anche non credente ce lo testimonia, ma il nostro modo di proporlo talvolta lo semplifica lo riduce ad una favoletta per bimbi. Un uomo maturo spiritualmente e culturalmente potrà invece annunciarlo con forza, e mostrarlo come una scelta seria sensata e credibile. Tornare ad essere formati è prima di tutto un servizio che dobbiamo ad un mondo che sente la nostra mancanza e che ha bisogno della nostra cultura umanistica prima che combini qualche irreparabile macello. La cultura è anche identità e tutti cominciamo a sentire quanto ci sia bisogno in questo mondo multiculturale di ritrovare la nostra autentica identità. Ma questo non basta, la cultura non è tutto, è solo un mezzo uno strumento per rendere al mondo le ragioni di ciò in cui crediamo. Scrive mons. Fisichella nel suo libro sulla Nuova evangelizzazione che noi non vogliamo avere l’applauso per tutti i progressi che abbiamo portato nel corso di secoli nella società europea, ma non vogliamo neanche che altri si approprino di essi per strumentalizzarli, ed in questo ci serve una buona preparazione. Ma il cuore di tutto è quel dialogo diretto che don Camillo ha con il Cristo dell’altare maggiore, che tal volte lo rianima e talvolta lo ammonisce, ma da sempre una certezza: lui è li e se c’è da dire una parola non si tira indietro al punto che anche il suo silenzio dice qualcosa. Tornare alla preghiera, al rispetto delle ore della ‘liturgia horarum’, allo scandire con le campane le ore che passano. Dice un Salmo: “Tota die contemplatio mea est”; mi colpiva nei miei studi latini che nell’antico ‘Breviarium romanum’ ci sono preghiere per ogni momento della giornata, addirittura per quando si camminava da un luogo all’altro. E qui mostro come la mia non sia una passione erudita per lo studio, la preghiera va bene anche semplice, l’uomo sapiente deve farsi semplice e profondo come un bambino quando prega. Nella diocesi di Roma c’è un’iniziativa di mini-catechesi in video su YouTube per aiutare i papà a spiegare la fede ai figli che si chiama proprio “Le domande grandi dei bambini”. Ecco questo bel connubio di sapienza e cultura che proprio perché autentiche si mescolano a grande umiltà, a profonda carità, infinità ricerca di bontà. Anche la liturgia non deve aver paure di recuperare la sacralità. Il Concilio ci ha detto di mostrare a tutti i fedeli la bellezza della liturgia, non di smontare la liturgia. Riuscire a mostrare la bellezza della liturgia non vuol dire semplicisticamente fare una cosa per bambini, una cosa fatta di canzoncine, mani plaudenti, abbracci. Vuol dire introdurre gli uomini del nostro tempo in una realtà che ci è stata data da Dio e che nessuno di noi può cambiare. Ultimo punto la territorialità. Mi viene in mente l’alluvione del Po’, il paese che viene sfollato, tutti vanno via, tranne uno: don Camillo. Dice ai fedeli: “ Voi andate, io resto qui per portare a tutti voi con la voce delle vostre campane il lieto annuncio del risveglio”. Ebbene sì don Camillo è pronto al martirio. Mi viene in mente Pio XII che fu l’unico a non abbandonare Roma e a trattare con i nazisti perché non la distruggessero andando via e rischiando i bombardamenti degli americani che arrivavano. Questo è un pastore, colui che non abbandona il gregge quando arrivano i lupi o le acque alte del secolarismo. E i nostri pastori devono sapere di esser pastori di tutti. In questo le campane ci insegnano molto. Quando suonano, suonano per tutti, e così è della vita del prete che risuona per tutto il territorio e per tutti, a servizio di tutti. Verrà da chiedersi: come faremo tutto questo? Con l’aiuto di Dio, e della Chiesa che ci da uno strumento prezioso come il Catechismo della Chiesa Cattolica, che invito tutti a comprare e soprattutto a studiare. Le diocesi dovrebbero rilanciarne lo studio, soprattutto delle prime sezioni, li dove i documenti del Concilio spiegano perché l’uomo crede, perché Dio si è rivelato, perché siamo felici quando ritroviamo nei 10 comandamenti la nostra somiglianza con Dio. E’ un discorso immenso, ma invito tutti coloro che leggono ad andare dal proprio parroco e chiedere di fare incontri sul Catechismo della Chiesa Cattolica!
Il Sinodo, come punto di partenza per la nuova evangelizzazione, ha raggiunto il suo scopo? Secondo te, si poteva osare di più?
Il Sinodo ha applaudito molto il mio intervento, prova del fatto che quando non abbiamo paura di osare le cose vanno bene! I documenti del Sinodo sono molto belli, ma il Sinodo è solo l’inizio, nella sua universalità è molto generico, ora starà ai vescovi e ai parroci metterlo in prati con iniziative molto pratiche per evitare che il grande lavoro vada perso. A Roma l’ufficio catechistico ad esempio sta organizzando incontri di formazione sulla Genesi e sul Credo, catechesi per le famiglie a cui accennavo prima, e forse servirebbe una parte dedicata esplicitamente al catechismo della chiesa cattolica che forse è già in progetto. Ad osare di più dunque dobbiamo esser noi, ricominciando a pregare, a sperare e ad amare in un mondo che non conosce più queste parole ma che ne ha un disperato bisogno! Buon lavoro, che Dio ci accompagni!

Benedetto XVI riceve il cardinale arcivescovo di Cracovia Stanislaw Dziwisz. Possibile nel colloquio il tema della nomina del nuovo prefetto della Casa Pontificia

Benedetto XVI ha ricevuto oggi il card. Stanislaw Dziwisz (foto), arcivescovo di Cracovia e storico segretario di Giovanni Paolo II. Dal 1999 al 2005 fu anche prefetto aggiunto della Casa Pontificia, per la quale il Papa deve indicare nei prossimi giorni il prelato che assumerà l'incarico di prefetto in sostituzione del neo cardinale Harvey (nominato da Wojtyla insieme a Dziwisz) che diventa arciprete della Basilica di San Paolo: è possibile che nel colloquio privato di oggi si sia affrontato anche questo tema.

Giacomo Galeazzi, Oltretevere

Lo scontro è tra la parola di questo Papa e la cultura di questo mondo, uno scontro che si è palesato subito e ha provocato reazioni, dentro e fuori la Chiesa, da parte di quei molti che non condividono questo modo nitido, leale con cui Benedetto pone sfide alla società di oggi

Dicono che quanto sta avvenendo Oltretevere sia frutto di uno scontro tra il Segretario di Stato Tarcisio Bertone e il presidente della CEI Angelo Bagnasco. Dicono che Benedetto XVI ne sia colpito così profondamente da risentirne anche nel fisico, che a toccarlo in modo particolare sia il coinvolgimento del suo maggiordomo, Paolo Gabriele, agli arresti per il furto delle carte riservate sue e del Vaticano. Ma dietro Vatileaks sembra agitarsi qualcosa di più di una guerra di potere, pur se nelle altissime gerarchie ecclesiastiche. "Lo scontro tra Bertone e Bagnasco è un elemento", spiega Sandro Magister, vaticanista de L’Espresso e autore di saggi sulla politica vaticana, il quale ha "l’impressione che questa fuga di documenti non sia orchestrata da una mente superiore che manovra il tutto". Per l’esperto di cose d’Oltretevere si tratta, piuttosto, del frutto di uno sfilacciamento interno alla Santa Sede, in cui "da un lato c’è una incapacità di governare la Curia" e "dall’altro si è indebolito il sentimento di appartenenza di chi vive e lavora nella Santa Sede". "Chi fa queste cose – spiega Magister – non vi si identifica, sente una distanza". Il risultato è l’immagine di "una cittadella vulnerabile a tutti i livelli", con un effetto paradossale: "Tutti i soggetti coinvolti, veri o presunti, hanno detto di farlo per il bene del Papa". Il meccanismo è quello che, su Il Tempo di ieri, Luigi Amicone, direttore del settimanale ciellino Tempi, sintetizzava con una metafora: "E come se uno svaligiatore di banche dicesse: io ho svaligiato la banca per denunciare la speculazione internazionale". "È evidente – aggiungeva – che si tenta di rendere repellente l’immagine della Chiesa come un luogo di misteri occulti, di chissà quali perversità". Diceva qualche giorno fa, in un’intervista al giornale on-line Pontifex Roma, il lefebvriano don Davide Pagliarini che "bisogna ragionare sui perché di questa situazione di crisi e attacchi" e che "questi assalti sono mirati non tanto alla persona fisica del Papa, quanto alla stessa istituzione". Proprio la volontà di riallacciare i rapporti con i lefebvriani, come il dialogo con la Chiesa ortodossa o l’accoglienza nella comunità cattolica di tanta parte della Chiesa anglicana, a partire da pezzi importanti delle sue gerarchie, sono stati fra i passi che in questi anni di pontificato hanno esposto Papa Ratzinger a pressioni, attacchi, inimicizie. Ma anche questi possono forse essere classificati più come elementi che come nocciolo della fortissima esposizione del seggio pontificio. "Leve su cui agire e da ingigantire", per dirla con Magister, secondo il quale il vero problema è che Joseph Ratzinger è "portatore di un messaggio molto nitido, molto leggibile, nonostante dica cose forti, importanti, alte". "Per semplificare al massimo – spiega ancora il vaticanista – lo scontro è tra la parola di questo Papa e la cultura di questo mondo, ed è uno scontro che si è palesato subito e ha provocato da subito reazioni, dentro e fuori la Chiesa, da parte di quei molti che non condividono questo modo nitido, leale con cui il Papa pone sfide alla società di oggi". Su Libero di ieri, Marcello Pera si chiedeva per quale motivo "lo Spirito" avesse voluto l’elezione proprio di Ratzinger. "Lo ha indicato perché risvegliasse le nostre coscienze mentre sono smarrite e inquiete", spiegava l’ex presidente del Senato che con il Pontefice è co-autore del libro Senza radici. "Chi compie questi attacchi, chi critica questo Pontificato mira a rovesciarne la linea", è l’opinione di Magister, per il quale se per la fuga di documenti non si può parlare di un complotto, non è comunque difficile intuire chi possa giovarsi e gioire di operazioni del genere: "Tutti quelli che partono dal presupposto che il mondo culturale cattolico sia superato, che pensano che ora ci sia una modernità che vince sull’arretratezza". "Io però non ho l’idea che la Chiesa stia vivendo una fase catastrofica. Difficile, ma non catastrofica", spiega il vaticanista, che ricorda come Papa Ratzinger rappresenti una linea di continuità con Wojtyla. "Nell’ultima fase del suo Pontificato, a livello mediatico, Giovanni Paolo II è stato presentato come il portavoce della 'modernità', si incoraggiava una sorta di compassione verso questo papa sofferente, avvalorata da una lettura molto interessata di certe 'battaglie pacifiste', ma se si va indietro negli anni si ricorda che Wojtyla è stato un Pontefice dalla visione altissima e contestato brutalmente, uno che ha avuto uno scontro frontale con la gerarchia della Chiesa italiana, uno a cui hanno sparato addosso anche fisicamente...".

Annamaria Gravino, Secolo d'Italia

Domani il card. Cañizares presiede nella Basilica Vaticana la Messa per i partecipanti al pellegrinaggio 'Una cum Papa nostro': ho accettato perchè è un modo per far comprendere che è normale l’uso del Messale del 1962

Con l'approvazione di Benedetto XVI, domani sarà il card. Antonio Cañizares Llovera (foto) a presiedere nella Basilica di San Pietro la Messa in lingua latina, e con il vecchio rito, per i fedeli che partecipano al pellegrinaggio "Una cum Papa nostro" indetto da numerosi organismi e associazioni tradizionaliste che intendono esprimere la loro gratitudine a Benedetto XVI per aver liberalizzato l'uso del Messale pre-conciliare con il Motu Proprio "Summorum Pontificum" del 2007. "Ho accettato volentieri di celebrare la Messa di sabato prossimo per i pellegrini venuti a ringraziare il Papa per il dono del Motu Proprio", afferma il cardinale spagnolo al sito Vatican Insider che ha annunciato la presenza alla celebrazione anche dell'arcivescovo Augustine Di Noia, vicepresidente della Pontificia Commissione "Ecclesia Dei". Per il card. Canizares, applicare il "Summorum Pontificum" rappresenta anche in questa circostanza, che riaccende clamorosamente i riflettori sull'antico Messale di fatto abbandonato per quasi mezzo secolo e recuperato 5 anni fa da Benedetto XVI, "un modo per far comprendere che e' normale usare la forma straordinaria dell'unico rito romano". "Il Motu Proprio di cinque anni fa - spiega - ha riconosciuto il valore della liturgia celebrata secondo il Messale del Beato Giovanni XXIII  sottolineando la continuità della tradizione nel rito romano. Riconoscendo la liturgia precedente si comprende che nel riformare non si nega ciò che era in uso precedentemente". "Ho accettato di presiedere il rito - tiene a chiarire Cañizares - perchè è un modo per far comprendere che è normale l’uso del Messale del 1962: esistono due forme dello stesso rito, ma è lo stesso rito e dunque è normale usarlo nella celebrazione". "Ho già celebrato diverse volte - racconta l'ex primate di Spagna - con il Messale del Beato Giovanni XXIII e lo farò volentieri anche questa volta". Infatti, "la Congregazione della quale il Papa mi ha chiamato ad essere prefetto non ha nulla in contrario all’uso della liturgia antica, anche se il compito proprio del nostro dicastero è di approfondire il significato del rinnovamento liturgico secondo le direttive della Costituzione 'Sacrosanctum Concilium' e dunque di metterci sulla scia del Concilio Vaticano II". "A questo proposito - precisa il porporato - bisogna dire che anche la forma straordinaria del rito romano deve essere illuminata da quella costituzione conciliare, che nei primi dieci paragrafi approfondisce il vero spirito della liturgia e dunque vale per tutti i riti". A 5 anni dal Motu Proprio, si rallegra infine Cañizares, "poco a poco si comincia a comprendere come la liturgia è fondamentale nella Chiesa e noi dobbiamo ravvivare il senso del mistero e del sacro nelle nostre celebrazioni". Trascorso questo periodo iniziale, al capo dicastero sembra infine che "si possa meglio comprendere come non si tratti soltanto di alcuni fedeli che vivono nella nostalgia del latino, ma che si tratti di approfondire il senso della liturgia". "Tutti - conclude Cañizares - siamo Chiesa, tutti viviamo la stessa comunione. Il Papa Benedetto XVI lo ha spiegato molto bene e nel primo anniversario del Motu Proprio ha ricordato che 'nessuno è di troppo nella Chiesa'".

Agi

Card. Cañizares: celebro in rito antico per far comprendere che è normale usarlo

Commemorazione di tutti i fedeli defunti. Il Magistero del Papa: la separazione dagli affetti terreni è certo dolorosa, ma non dobbiamo temerla, non può spezzare il legame profondo che ci unisce a Dio

Nella giornata in cui la Chiesa commemora solennemente i defunti, il Papa presiederà, alle 18.00 nelle Grotte Vaticane, un momento di preghiera per i Pontefici defunti. Domani mattina poi, alle 11.30, Benedetto XVI celebrerà, nella Basilica Vaticana, una Santa Messa in suffragio dei cardinali e vescovi morti nel corso dell’anno. “La separazione dagli affetti terreni è certo dolorosa, ma non dobbiamo temerla” perché essa “non può spezzare il legame profondo che ci unisce a Dio”. Benedetto XVI sottolinea questa certezza del cristiano che mette in luce il paradosso dell’uomo contemporaneo: da una parte ha largamente dismesso la spiritualità cristiana, dall’altra di fronte alla morte cerca una qualche trascendenza parallela.
“L’uomo moderno l’aspetta ancora questa vita eterna, o ritiene che essa appartenga a una mitologia ormai superata? In questo nostro tempo, più che nel passato, si è talmente assorbiti dalle cose terrene, che talora riesce difficile pensare a Dio come protagonista della storia e della nostra stessa vita” (2 novembre 2005).
Di qui il suo appello a “riappropriarsi” della dimensione della morte, parole pronunciate quattro anni fa, ma che sembrano riecheggiare il tema del Sinodo appena conclusosi in Vaticano: “E’ necessario anche oggi evangelizzare la realtà della morte e della vita eterna, realtà particolarmente soggette a credenze superstizione e a sincretismi, perché la verità cristiana non rischi a di mischiarsi con mitologie di vario genere” (2 novembre 2008).
L’interrogativo fondamentale, ribadisce il Papa, è cosa sia davvero la morte per un cristiano. La mentalità dominante, osserva, ci porta a credere che al di là della morte ci sia il nulla. Ma chi crede in Cristo e nella Sua Risurrezione sa che la strada della morte è in realtà “una via della speranza”. Non è la fine, ma l’inizio della vita piena. Per questo, chi riconosce una grande speranza nella morte, “può anche vivere una vita a partire dalla speranza”: “L’uomo ha bisogno di eternità ed ogni altra speranza per lui è troppo breve, è troppo limitata...L’uomo è spiegabile, trova il suo senso più profondo, solamente se c’è Dio” (2 novembre 2011).
Questa vita, ha quindi ribadito ieri il Papa all’Angelus, ha senso solo se c’è l’amore, un amore che non finisce. “Vediamo – ha affermato - che seguire Cristo porta alla vita, alla vita eterna, e dà senso al presente, ad ogni attimo che passa, perché lo riempie d’amore, di speranza”.

Radio Vaticana